#CosanesARADime. Ovvero dei miei cinque mesi in Romania
Italian? Da. Student? Nu, voluntar. Iniziavano tutte così le mie conversazioni con i tassisti di Arad,
cittadina rumena di centosessantamila abitanti a una manciata di
chilometri dal confine ungherese. Un posto che ho scoperto essere
piuttosto conosciuto in Italia, per via di una Facoltà di Medicina e
Odontoiatria frequentata da rampolli e donzelle di tutto il bel paese.
Una città che, neanche a dirlo, non avevo mai sentito nominare, prima di
prendere parte al progetto SVE Meetings with Languages, promosso dall’Asociaţia Millenium Center.
Cosa mi ha spinto a partire? Il voler risolvere un piccolo paradosso professionale: occuparmi con soddisfazione di insegnamento dell’italiano a stranieri – tra università e terzo settore – senza aver mai fatto un’esperienza di studio o lavoro fuori dall’Italia. Così, a pochi mesi dal mio trentesimo compleanno, ho iniziato a cercare un bel progetto di mobilità internazionale che fosse incentrato sull’insegnamento/apprendimento delle lingue. L’ho trovato e mi ci sono avventato al grido di “ora o mai più”.
Nel tempo intercorso tra l’esito – positivo – delle selezioni e il giorno della partenza, ho fatto la mia parte: mi sono messo a studiare. Ho raccolto informazioni sul Paese, la città, la lingua, l’associazione, il progetto, e ho approfittato del prezioso aiuto della mia sending organisation, Futuro Digitale, per farmi un’idea, la più precisa possibile, di ciò che mi aspettava. Del resto, lanciarmi all’avventura non è mai stato nelle mie corde.
Ora che sono rientrato, però, posso, anzi, devo dirlo: nonostante il mio impegno, non ero preparato.
Non ero preparato a lavorare con colleghe italiane tanto appassionate, competenti e intraprendenti; e con uno staff sempre presente e costantemente impegnato a supportarci durante le nostre attività.
Non ero preparato a intraprendere un percorso di formazione così intenso, che mi ha permesso di approfondire i metodi dell’educazione non formale, fare esperienza con nuovi profili di apprendenti, perfezionare il mio inglese e imparare (a comunicare in) una nuova lingua.
Non ero preparato a entrare a far parte di una comunità di volontari, soprattutto turchi, straordinariamente nutrita e calorosa; a mangiare, bere, ridere, discutere insieme, scoprendo ogni giorno qualcosa di nuovo, spesso in comune.
Non ero preparato a incrociare gli sguardi di tante persone tanto diverse le une dalle altre. Altrettanti specchi di un Paese complesso, composito, in lotta con (una parte di) se stesso, ma in cui si ha la sensazione che le cose inizino a girare per il verso giusto. E non mi riferisco solo all’economia.
Non ero preparato alla semplicità e alla disponibilità della stragrande maggioranza degli uomini e delle donne che ho incontrato per le strade di Arad, Timisoara, Oradea, Sibiu, Brasov, Sighisoara, Bucarest e nei tanti paesini che ho attraversato durante i miei viaggi.
Non ero preparato a veder nascere un sorriso sui volti dei miei interlocutori, mentre comunicavo loro di essere italiano; e a sentirmi dire che suntem fraţi: siamo fratelli. Per ragioni storiche, certo, ma anche di riconoscenza verso un Paese, il nostro, in cui molti di loro hanno lavorato o studiato e magari hanno ancora uno zio, un genitore, un fratello – appunto – che ci vive.
Non ero preparato ad ascoltare le storie sofferte, i discorsi lucidi e i sogni cosmopoliti dei ragazzini e dei giovani a cui ho insegnato un po’ di italiano e da cui ho imparato quanto è importante la voglia di migliorarsi e di sfatare i troppi pregiudizi che li riguardano.
Non ero preparato a sentirmi così forte nell’affrontare le grandi sfide e le piccole difficoltà quotidiane del vivere un’esperienza di questo genere. Quando ormai per carattere ed età temevo che sarei stato fuori luogo e fuori tempo (massimo).
E, soprattutto, non ero preparato a che tutto questo finisse.
In compenso, ora sono pronto a guardare al mio futuro in giro per il mondo.
Articolo pubblicato sul magazine online Scambieuropei e sul sito dell'Associazione di promozione sociale Futuro Digitale.
Cosa mi ha spinto a partire? Il voler risolvere un piccolo paradosso professionale: occuparmi con soddisfazione di insegnamento dell’italiano a stranieri – tra università e terzo settore – senza aver mai fatto un’esperienza di studio o lavoro fuori dall’Italia. Così, a pochi mesi dal mio trentesimo compleanno, ho iniziato a cercare un bel progetto di mobilità internazionale che fosse incentrato sull’insegnamento/apprendimento delle lingue. L’ho trovato e mi ci sono avventato al grido di “ora o mai più”.
Nel tempo intercorso tra l’esito – positivo – delle selezioni e il giorno della partenza, ho fatto la mia parte: mi sono messo a studiare. Ho raccolto informazioni sul Paese, la città, la lingua, l’associazione, il progetto, e ho approfittato del prezioso aiuto della mia sending organisation, Futuro Digitale, per farmi un’idea, la più precisa possibile, di ciò che mi aspettava. Del resto, lanciarmi all’avventura non è mai stato nelle mie corde.
Ora che sono rientrato, però, posso, anzi, devo dirlo: nonostante il mio impegno, non ero preparato.
Non ero preparato a lavorare con colleghe italiane tanto appassionate, competenti e intraprendenti; e con uno staff sempre presente e costantemente impegnato a supportarci durante le nostre attività.
Non ero preparato a intraprendere un percorso di formazione così intenso, che mi ha permesso di approfondire i metodi dell’educazione non formale, fare esperienza con nuovi profili di apprendenti, perfezionare il mio inglese e imparare (a comunicare in) una nuova lingua.
Non ero preparato a entrare a far parte di una comunità di volontari, soprattutto turchi, straordinariamente nutrita e calorosa; a mangiare, bere, ridere, discutere insieme, scoprendo ogni giorno qualcosa di nuovo, spesso in comune.
Non ero preparato a incrociare gli sguardi di tante persone tanto diverse le une dalle altre. Altrettanti specchi di un Paese complesso, composito, in lotta con (una parte di) se stesso, ma in cui si ha la sensazione che le cose inizino a girare per il verso giusto. E non mi riferisco solo all’economia.
Non ero preparato alla semplicità e alla disponibilità della stragrande maggioranza degli uomini e delle donne che ho incontrato per le strade di Arad, Timisoara, Oradea, Sibiu, Brasov, Sighisoara, Bucarest e nei tanti paesini che ho attraversato durante i miei viaggi.
Non ero preparato a veder nascere un sorriso sui volti dei miei interlocutori, mentre comunicavo loro di essere italiano; e a sentirmi dire che suntem fraţi: siamo fratelli. Per ragioni storiche, certo, ma anche di riconoscenza verso un Paese, il nostro, in cui molti di loro hanno lavorato o studiato e magari hanno ancora uno zio, un genitore, un fratello – appunto – che ci vive.
Non ero preparato ad ascoltare le storie sofferte, i discorsi lucidi e i sogni cosmopoliti dei ragazzini e dei giovani a cui ho insegnato un po’ di italiano e da cui ho imparato quanto è importante la voglia di migliorarsi e di sfatare i troppi pregiudizi che li riguardano.
Non ero preparato a sentirmi così forte nell’affrontare le grandi sfide e le piccole difficoltà quotidiane del vivere un’esperienza di questo genere. Quando ormai per carattere ed età temevo che sarei stato fuori luogo e fuori tempo (massimo).
E, soprattutto, non ero preparato a che tutto questo finisse.
In compenso, ora sono pronto a guardare al mio futuro in giro per il mondo.